Sciocca felicità (Sergej Aleksandrovič Esenin Konstantinovo, Russia 3/10/1895 – Leningrado, Russia 28/12/1925)
Eccola, questa sciocca felicità
Con le sue finestre bianche spalancate sull’orto!
Sopra lo stagno, uguale a un cigno purpureo
Naviga silenzioso il tramonto.
Salve, mia pozzanghera d’oro
E voi betulle capovolte nell’acqua!
Dal tetto una banda di cornacchie
Canta i Vespri alle stelle.
Laggiù oltre i giardini
Dove fiorisce la vitalba
Una soave ragazza vestita di bianco
Accenna delicate canzoni:
E il freddo notturno si distende sui campi
Come una sottana celeste.
O mia cara, mia sciocca felicità,
Tenere e fresche guance di una volta!
Nella frescura d’autunno è bello (Sergej Aleksandrovič Esenin Konstantinovo, Russia 3/10/1895 – Leningrado, Russia 28/12/1925)
Nella frescura d’autunno è bello
scuotere al vento l’anima – che pare una mela –
e guardare l’aratro del sole
che solca sopra al fiume l’acqua azzurra.
È bello strapparsi dal corpo
il chiodo ardente d’una canzone
e nel bianco abito di festa
aspettare che l’ospite bussi.
Io mi studio, mi studio col cuore di serbare
negli occhi il fiore del ciliegio selvatico.
Solo nel ritegno i sentimenti si scaldano
quando una falla rompe il petto.
In silenzio rimbomba il campanile di stelle,
ogni foglia è una candela per l’alba.
Nessuno farò entrare nella stanza,
non aprirò a nessuno la porta.
Confessione di un malandrino (Sergej Aleksandrovič Esenin Konstantinovo, Russia 3/10/1895 – Leningrado, Russia 28/12/1925)
Non a ciascuno è dato di cantare,
non a ciascuno è dato di cadere
come una mela ai piedi di qualcuno.
Eccovi la suprema confessione,
quella che vi può fare un malandrino.
Mi piace spettinato camminare
col capo sulle spalle come un lume,
e così mi diverto a rischiarare
il vostro triste autunno senza piume.
Mi piace che mi grandini sul viso
la fitta sassaiola dell’ingiuria:
mi agguanto solo, per sentirmi vivo,
al guscio della mia capigliatura.
Ed in mente mi torna quello stagno
che le canne ed il muschio hanno sommerso,
e mio padre e mia madre che non sanno
d’avere un figlio che compone versi.
Ma mi vogliono bene come ai campi,
alla pelle e alla pioggia di stagione;
raro sarà che chi m’offende scampi
da loro e dalle punte del forcone.
Poveri genitori contadini!
Certo siete invecchiati e ancor temete
il signore del cielo e gli acquitrini…
Genitori che mai non capirete
che oggi il vostro figliuolo è diventato
il primo fra i poeti del paese…
Quando correva scalzo sul bagnato
vi si copriva l’anima di brina:
ora invece in iscarpe verniciate
e col cilindro in testa egli cammina.
Ma sopravvive in lui la frenesia
d’un vecchio mariolo di campagna,
e ad ogni insegna di macelleria
alla vacca s’inchina, sua compagna.
E quando in piazza incontra un vetturino,
gli torna in mente il suo concio natale,
e vorrebbe la coda del ronzino
reggere come strascico nuziale.
Voglio bene alla patria,
l’amo senza confine,
benché afflitta di tronchi rugginosi.
M’è caro il grugno sporco dei suini
ed i rospi nell’ombra sospirosi.
Son malato d’infanzia e di ricordi
e di freschi crepuscoli d’aprile.
Sembra quasi che l’acero si curvi
per riscaldarsi e poi dormire.
Dai nidi di quell’albero le uova
per rubare salivo fino in cima.
Ma sarà la sua chioma sempre nuova
e dura la sua scorza come prima?
E tu, mio caro amico,
vecchio cane fedele?
Fioco e cieco t’ha reso la vecchiaia,
e giri a coda bassa nel cortile,
ignaro delle porte e dei granai.
Mi son cari i miei furti di monello,
quando rubavo in casa un po’ di pane,
e si mangiava come due fratelli,
una briciola l’uomo ed una il cane.
Io non sono cambiato,
il cuore ed i pensieri son gli stessi,
e come fiori in grano, in viso gli occhi.
Sui tappeti magnifici dei versi
voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.
Buona notte!
La falce risonante della luna
si cheta mentre l’aria si fa bruna.
Dalla finestra mia voglio stasera
pisciare contro il disco della luna.
L’azzurro della notte è così terso:
qui forse anche il morire non fa male.
Che importa se il mio spirito è perverso
e dal mio dorso penzola un fanale?
O Pegaso decrepito e bonario,
il tuo galoppo è ora senza scopo.
Giunsi come un maestro solitario
e non canto e non celebro che i topi.
Dalla mia testa come uva matura
gocciola il folle vino delle chiome…
Voglio essere una gialla velatura
gonfia verso un paese senza nome.
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco (Sergej Aleksandrovič Esenin Konstantinovo, Russia 3/10/1895 – Leningrado, Russia 28/12/1925)
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso un paese di silenzio e di quiete:
e presto anch’io dovrò preparare
al viaggio le mie spoglie mortali.
O care foreste di betulle!
E voi campi, sabbie delle pianure!
Davanti a questa folla di emigranti
non riesco a frenare la tristezza.
Forse ho creduto troppo qui nel mondo
a ciò che veste lanima di carne.
Pace sui pioppi che lombrello dei rami
hanno specchiato dentro lacqua rosa.
Quanti pensieri chiusi nel segreto,
quante canzoni composte a bassa voce:
ma sì, felice sono in questo nero universo
dogni respiro, dogni cosa vissuta.
Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, corso nellerba,
e mai aver battuto sul capo le bestie
nostri fratelli minori.
So bene che laggiù non fioriscono selve
né canta la segale dal collo di cigno:
perciò sempre mi agghiaccia
salutare una folla demigranti.
So che là non splendono campi
nella nebbia: e allora con tanta dolcezza
io guardo agli uomini
che vivono con me su questa terra.